
Preavviso: il post è da appassionato di tecnologia, ma essenzialmente linguistico.
“Perseverance” è su Marte. Gli autori di fantascienza dovranno impegnarsi a fondo per realizzare qualcosa di almeno paragonabile a immagini e video che ci arrivano dal Pianeta Rosso, a cominciare dalla spettacolare discesa del robot, poggiato delicatamente al suolo da una “gru” tenuta su con i razzi. La sonda è “ammartata” con successo. Lo hanno ripetuto parecchi siti e commentatori, riempiendosi la bocca del termine.
“Ammartare”, nel senso di atterrare su Marte, a me non piace, come non mi piace “allunare”, perché suona male e perché questa logica ci costringe a inventare una parola per ogni luogo che andremo a esplorare. Bisognerebbe quindi inventare, di volta in volta, “avvenerare”, “applutonare”, “auranare”, “aggiovare” o “assaturnare”, solo per iniziare il giro del nostro Sistema Solare e ammesso che gli ultimi due termini abbiano un senso, trattandosi di giganti gassosi in cui il substrato roccioso, se c’è, è sotto migliaia di chilometri di gas compressi. E andando più in là, chissà quali varianti dissonanti coniare.
Ma poi si dovrebbe dire anche “accometare” e “ammeteorare”, per le sonde che hanno già toccato questo tipo di corpi celesti. In realtà il primo verbo è già registrato come neologismo dalla Treccani a seguito della missione Rosatta dell’ESA, altro spettacolare successo tecnologico.
È vero che esiste già “ammarare” per gli idrovolanti, ma questo avveniva prima che le missioni spaziali esistessero – qualche scrittore o scienziato le immaginava, è vero, ma solo come possibilità molto di là da venire – e poi lascia il problema dell’atterraggio in fiumi e laghi, con improbabili “affiumare” e “allagare”, quest’ultimo soggetto a facili fraintendimenti.
Il problema non è nuovo, fu già posto in occasione delle missioni Apollo sulla Luna e abbraccio qui la soluzione più semplice che già allora fu proposta.
Secondo me, è molto meglio generalizzare il concetto di “atterrare”, slegandolo dal vincolo con il nostro amato (si spera) pianeta Terra, lasciando il riferimento ad essa come puro residuo affettivo e storico e intendendolo in senso generico come presa di contatto di un veicolo con un corpo solido che lo possa supportare, e quindi procedere sveltamente con “atterrare” su Marte, su Venere, sulla Luna o su qualsiasi altro supporto grande o piccolo che la scienza, la fantasia o il destino ci diano la possibilità di incontrare.
“Atterrare” in senso generico lascia aperte miriadi di possibilità, che è proprio quello che rende affascinanti scienza, tecnologia e fantascienza. Le parole devono servire come strumenti di libertà di pensiero e non puntelli di confini mentali.
In inglese, per inciso, non esiste un verbo equivalente ad “allunare” o un termine per “allunaggio”, si parla sempre di “moon landing”. Ad eccezione del tedesco, che incolla le parole fra loro per formarne di lunghissime, la questione riguarda solo l’italiano e altre lingue neolatine, notoriamente propense alla retorica altisonante.