La peggiore in assoluto

La malattia peggiore in assoluto? Secondo me l’Alzheimer.

Spero di non urtare, con quest’affermazione, la sensibilità di tanti, che soffrono acremente in tante maniere. Sarà che sono prevenuto.

Sono prevenuto perché ne sono stato toccato da vicino, in famiglia, più volte.

E sono ancora più prevenuto perché temo di contrarla, un giorno, speriamo mai, per vincolo ereditario.

È la malattia peggiore in assoluto perché distrugge l’individuo dall’interno, ne cancella le facoltà, la memoria. E lascia un guscio vuoto, rumoroso, problematico, che rovina la vita delle persone che gli sono attorno.

La persona malata si distacca dal mondo, non capisce più chi e cosa gli è attorno, cosa gli accade, non sa più neppure chi è. Non solo non è in grado di badare a se stesso ma neppure di capire i propri bisogni.

Dicono che l’intimo della persona resta, gli affetti, le passioni. Forse, ma solo nella forma dell’ombra di sé stesse.

È una malattia di merda sotto molti aspetti, che lo diventa alla lettera quando la persona diventa non più in grado di trattenere le proprie deiezioni. E allora per chi c’è attorno diventano acrobazie di pannoloni, detersivi, disinfettanti, guanti sterili, lavatrici e tecniche di svestimento e rivestimento di un malato che collabora poco o niente, anzi spesso contrasta d’istinto quello che gli si cerca di fare.

Curare un malato di Alzheimer è un continuo combattimento, snervante per il fisico e ancora di più per i nervi, soprattutto se si tratta di un tuo caro.

Immaginate un malato che non collabora, con cui non puoi ragionare, a cui anche sfilare un indumento è complesso, che quando si fissa su un’idea, di uscire o di trovare chissà cosa, può smaniare per ore e tirare giù tutto quello che c’è in casa. Che magari diventa violento senza motivo, solo perché si sente spaesato a casa sua o ha frainteso un gesto o una parola.

E sai che questi sforzi sono vani, provvisori, perché ogni stabilizzazione della malattia è fittizia, illusoria e presto o tardi (più presto che tardi) arriverà un nuovo peggioramento, imprevedibile, e dovrai ricominciare daccapo.

E il malato si perde di giorno in giorno in un “mondo” sempre più ristretto fatto di frammenti di ricordi che baluginano incerti e combaciano sempre meno con la realtà attorno. Come stupirsi che spesso sia preda di rabbia, depressione, agitazione.

Lo stato “paga” con un assegno di accompagnamento spesso difficile da ottenere, dopo trafile di medici, avvocati, commissioni e burocrazia, rifiuti inspiegabili e ritardi offensivi. E con qualche visita medica periodica, mentre ciò che serve è assistenza continua, da pagare privatamente e profumatamente. Fornisce i farmaci, è vero, palliativi perché una vera cura non esiste.

Anche la ricerca sembra ferma: medicine palliative, che attenuano i sintomi o al massimo ne rallentano il progresso. Esami preventivi che andrebbero fatti quando ti senti ancora sano per magari cominciare già a curarti o solo per sapere che fine farai.

Quando accadono episodi di follia attorno a un malato così, soprattutto ad opera di parenti anziani, anch’essi debilitati e magari con difficoltà economiche, non posso certo giustificarli ma devo ammettere, mio malgrado, che li capisco.

Ripagano, questo è vero, con momenti di tenerezza difficili da descrivere, che in piccola parte compensano da mesi di fatica, di timori, di vere e proprie angosce e di privazione della libertà.

Tornerò sull’argomento forse, prima o poi, ma vi assicuro che non è facile.

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